Martina

È il mio quarantesimo compleanno. Appena sveglia, resto un po’ nel letto, divagando con i pensieri. Allungo la mano e accendo il portatile rimasto ai piedi del letto, dalla sera prima.

Le tapparelle sono ancora serrate, posso godere l’aria mattutina e il cinguettio degli uccelli, mentre leggo messaggi di auguri sul mio profilo Facebook.

Un piccolo raggio di sole passa attraverso un buchino della serranda e illumina parte della stanza. La mia bella e calda camera da letto, in cui mi piace rifugiarmi tra le mie cose, che avvolge la mia solitudine e esprime la mia autonomia.

Alle nove, il telefono. Non riesco a vedere il nome sul display e inavvertitamente apro la conversazione. Una voce maschile, dall’altra parte: «Ciao Martina, volevo farti gli auguri. Che farai oggi? Festeggiamo insieme?».

«Marco?» sento il battito fino in gola, più forte.

Non ci sentivamo da dieci giorni dopo l’ultima litigata violenta. Ho tanto desiderato che arrivasse un cenno da parte sua.

Resto in silenzio, per un attimo. Una morsa mi prende lo stomaco e farfuglio un «ehm…niente di particolare, in realtà avevo…»

Non mi fa finire di parlare «Preparati, passo tra mezz’ora. Ti porto in montagna, sulla Maiella, poi decidiamo dove fermarci».

«Fai uno squillo quando arrivi». Mi limito a rispondere. Lancio il telefono sul letto, stringo la testa tra le mani e penso non ci posso credere. Ogni volta che parlo con quest’ uomo la mia capacità decisionale è azzerata.

Scappo in bagno, mamma che occhiaie! Penso, mentre mi specchio. Lancio uno sguardo all’orologio. Porca miseria. Sono le nove e venti e sono in alto mare.

Passo a lavarmi la faccia e le mani mi tremano. Mi tocca struccarmi almeno un paio di volte. Indosso i primi vestiti che trovo, mi guardo e il pantalone che ho scelto, non mi convince.

Mi ritengo una donna tutto sommato realizzata. Nella vita affettiva, non molto fortunata. Mia madre e mio padre si sono lasciati quando ero piccolissima e non li ricordo mai insieme. Ho avuto un’infanzia di solitudine. I miei erano troppo presi dalle loro fragilità per poter capire e soddisfare i miei bisogni di bambina. Sono cresciuta in fretta e ho imparato a pensare sempre prima agli altri e poi a me stessa. Oggi, sono laureata in psicologia e sono una bravissima psicoterapeuta. Nonostante la vita mi abbia reso le cose sempre difficili sono riuscita a diventare una professionista.

Uno scarpaio dalle scarpe rotte. La mia vita sentimentale, la prova.

Lo squillo. È lui. Già? Devo andare, non mi voglio sentire le sue paturnie sulla puntualità, di prima mattina. In trenta secondi sono giù.

Direzione Abruzzo, come promesso. Marco mi accoglie in tenuta da aperitivo chic a Formentera, proprio l’abbigliamento adatto ad un trekking in montagna, dico tra me e me, mentre lo guardo mettersi alla guida, in atteggiamento da spaccone. Neanche ci siamo detti ciao e già mi sta sul cazzo, penso.

In viaggio mi limito a guardare fuori dal finestrino e cambio stazione alla radio. Ho provato pura adrenalina nel ricevere la sua chiamata, come un drogato in astinenza ma ora vorrei afferrare quello spazio aperto e fuggire via, lontano anni luce da quel posto.

I monti abruzzesi, imponenti, sovrastano l’autostrada, il sole alto e caldo mi illumina il viso.

Ad un certo punto, alzo il volume al massimo, Sai cosa penso? Che se non ha un senso domani arriverà lo stesso…canto Vasco a squarciagola, per non sentire il disagio. Lo guardo, provo a condividere il momento, ma lui è troppo concentrato a guidare.

Raggiungiamo un sentiero e ci incamminiamo. «Oh! Mi aspetti? Vai troppo veloce. Certo che è bello fare la passeggiata romantica, con te. Vabbè che sei un atleta e sei alto un metro e novanta». Cerco di catturare la sua attenzione, lo provoco. Marco ha un’andatura rapida, che manifesta una presenza che è assenza.

«Ah! Allora lo sai, che sono un campione!». Taglia corto lui, abile a evitare la comunicazione.

Dopo circa un chilometro, ci fermiamo ad una fontanella. La stradina che percorriamo è piena di fiori, totalmente avvolta dal verde. Solo il lembo di terra su cui passiamo è scoperto. I colori sono caldi e l’atmosfera è romantica.

Si ferma improvvisamente, mi fissa. I suoi occhi castani nei miei occhi verdi. Per una frazione di secondo provo l’illusione che stia per pronunciare qualcosa di carino, ed è in quel momento che Marco abbozza un sorriso e esclama «mettiti gli occhiali, che è meglio».

Il mio sguardo si fa serio. Un calore irradia tutto il corpo. Mi siedo su una pietra, poggio la fronte su una mano con gli occhi chiusi e respiro profondamente. Ho la tentazione di correre via, ma non posso. Non voglio rispondere, ma le parole escono da sole «Tu sei proprio uno stronzo. Perché mi devi sempre svilire?».

«Io? Stronzo?» sorride, minimamente colpito dalle mie parole. «Tu sei esagerata. Hai la faccia distrutta, che ti dovrei dire? Sei la solita pazza. Paranoica».

Sgrano gli occhi e scuoto la testa, incredula. Calma, stai calma, mi ripeto, stai per cadere nella solita provocazione. Ho paura delle sue reazioni, dei suoi colpi a ferire che non so più sopportare.

Mi azzittisco. Preferisco. Ho imparato anche a non rispondere.

Continuiamo la passeggiata, seguiamo il sentiero che conduce al punto da cui è possibile ammirare il panorama. Marco sempre avanti, io dietro, come a voler rimarcare la sua supremazia.

Scatto qualche foto. Ci sono tanti alberi, verdi come la speranza, ormai vana. Faccio dei selfie tra i fiori colorati e bevo acqua di sorgente, in un equilibrio naturale che cerco di ottenere da tempo. Raggiungiamo il belvedere e una sorpresa si presenta ai miei occhi.

È il lago di Scanno, a forma di cuore. Bellissimo. Volgo lo sguardo all’infinito e trovo l’essenza più intima, che mi appartiene.

Il percorso è concluso, ci aspetta la discesa, più semplice. La percorro concentrata ad evitare le pozzanghere. Giunti al parcheggio, mi fermo e prendo tempo.

Pulisco le scarpe strusciandole nell’erba, sono piene di fango. Lui aspetta in macchina, pronto a dirigersi al ristorante. Come sempre. Come da tre anni siamo abituati a fare. Finta di niente.

Mi avvicino al suo lato, il vetro è abbassato. Appoggio i gomiti sul finestrino, abbozzo una smorfia e scrollo le spalle, lui mi dice «Entra in macchina, muoviti, che facciamo tardi». Resto immobile per almeno dieci secondi, poi le parole «Marco riportami a casa, io non ti amo più».

Finalmente, dopo anni di prepotenza e prevaricazioni, la mia storia è finita. Ce l’ho fatta. Sono fuori dall’incubo.