Chiara

«Ciao Chiara! Buongiorno, tutto bene?» Mi chiede, con voce squillante. Capisco che è una domanda posta giusto per. Mi ha chiamato per raccontarmi qualche nuovo incontro, lo intuisco dal tono.

«Non molto, in realtà, oltre a papà, che peggiora di giorno in giorno, ci mancava lui». Me ne frego della sua intenzione e parto in quarta. Indugio un attimo prima di aggiungere altro, per la difficoltà che provo, anche solo a pronunciare quell’amara verità.

«Stanotte non è rientrato, Martina, non so che fine abbia fatto e non mi ha neanche avvisato».

Nel dirlo, mi viene una fitta allo stomaco.

«Non ci credo! Che stronzo. Dove cazzo sarà andato, stavolta?». Replica Martina, che capisce la difficoltà del momento, anche se conosce la storia a memoria.

«Non lo so. Non ce la faccio più, ho pianto tutta la notte, mi ha tolto la dignità e forse, che devo dire? Meglio così. Ci metto un punto definitivo». Pronuncio parole che possano convincermi che sia la volta buona.

Un attimo di silenzio poi scoppio a piangere. Ho un estremo bisogno di parlare con qualcuno e di sfogarmi e ho scelto lei, che è riuscita a liberarsi del suo rapporto tossico. Ha lasciato Marco e vola con la mente verso nuovi orizzonti.

«Ho perso tutto» continuo, con la voce rotta dal pianto. «Il giorno in cui gli ho detto di farsi curare e ho creduto alle sue fottute promesse. Il primo, di innumerevoli giorni, come quello. Tutti uguali. Dopo quel giuramento, con cui aveva gridato convinto la fine della sua autodistruzione, per il mio compleanno, alla mia festa, dopo preparativi, addobbi, amici invitati e gioia di condividere, lui che fa? Non si presenta, senza avvisare. Sparito. Ancora una volta mi lascia da sola, per fare i suoi sporci comodi e tornare fatto, la mattina dopo. E ogni volta che tutto questo è accaduto me lo sono ripreso, sempre. E ogni volta ho creduto all’illusione che fosse l’ultima».

Scoppio di nuovo a piangere. Martina resta in silenzio, in attesa di trovare le parole giuste.

«Vuoi uscire a fare una passeggiata? Metti addosso qualcosa e raggiungimi, ci vediamo sul lungomare». Mi esorta, convincente.

«Va bene», rispondo subito, sollevata dalla proposta entusiasta.

Dieci minuti, occhiali da sole e via, esco di casa. Vado a piedi, camminare mi scarica e poi, fa caldo.

Allungo un po’ il percorso e vado a fare un giro al Paese Vecchio prima di tornare sul lungomare, dove vivo in una piccola villetta. Per fortuna non ho mai avuto problemi economici, grazie a papà.

Vivo di rendita, della sua rendita. La mia vita da un po’ di anni si riduce ad assistere lui, ormai gravemente malato e pensare a mio marito, Leo.

Mente cammino mi accorgo che Termoli inizia a svegliarsi per la stagione balneare.

Mi affaccio sul muraglione che costeggia il Castello, il sole è alto e luccica sul mare. Tutti i lidi sono al lavoro. Si intravedono le ruspe che puliscono la spiaggia e i cantieri per risistemare i bar. Qualcuno prende le misure per gli ombrelloni, altri li hanno già piantati.

È tutto così familiare, penso. Ogni stabilimento con i suoi soliti colori. Il lido sotto il Castello è già pronto. Gli ombrelloni gialli e verdi, perfettamente allineati.

Il mio pensiero raggiunge per un attimo la prossima estate, mi chiedo se ancora una volta la passerò in questa situazione di merda.

Guardo l’orologio, si sta facendo tardi, allungo il passo.

Martina mi ha raggiunto e ci incamminiamo verso il centro.

«Sai qual è stata la cosa peggiore di questi anni? Vederlo distruggersi ogni giorno e sentirmi impotente. Vederlo consapevole del suo problema, deciso a uscirne e, ogni volta, dover accettare che non ne abbia la forza. Meno male che non abbiamo avuto figli! Abbiamo provato di tutto e tu, lo sai. Anche la procreazione assistita. Avevo 42 anni, ora ne ho 47. Doveva andare così e vista la situazione, per fortuna!».

«Mi dispiace per Leo», risponde Martina, con lo sguardo basso «purtroppo è distruttivo, per sé e per chi gli vuole bene».

«La cocaina è una droga di merda. Quello schifo che ti sniffi, ha quel cazzo di effetto di farti sentire un leone, forte e invincibile. Quando l’ho conosciuto ne era uscito e mai avrei immaginato che potesse ricadere. Mai. La sera, da quando ha ripreso a drogarsi, qualche volta rientra con voglia di fare sesso, altre volte è agitato.

Ti ricordi quella volta che ha spaccato tutti i bicchieri, perché non ne ha trovato subito uno pulito? Chi se la dimentica. Io ho paura se continua così, può diventare violento».

Sbatto di continuo le palpebre per scaricare la tensione.

Martina si limita a guardarmi, in silenzio.

Ci sediamo a bere un caffè. Scegliamo un bar che ha aperto da poco, con delle panchine, su un prato all’inglese.

Per un attimo distolgo il pensiero da Leo e mi viene in mente un mio amico, avvocato, Erminio, scomparso da poco per un’atroce malattia.

L’ultima volta che l’ho visto aveva il dolore negli occhi, umiliato dalla sofferenza e dal modo in cui la bestia l’aveva ridotto. Quel giorno, nonostante tutto, mi ha regalato un sorriso e la sua voglia di vivere. Che strana l’esistenza, penso.

C’è chi avrebbe dato qualunque cosa per continuare a vivere e chi, invece, decide di morire e si autodistrugge.

Ricordo spesso cosa Erminio ha lasciato nella mia vita. Uno dei pochi uomini, oltre mio padre, che mi ha dato qualcosa. Mi voleva un bene sincero. Un amico leale, di una cultura e di una educazione di altri tempi.

Ogni volta che ci vedevamo, il più delle volte nel suo studio, dove andavo a trovarlo, mentre lo ammorbavo con le lamentele sul mio marito, non mi interrompeva mai, per non dispiacermi.

Tirava fuori la chitarra e iniziava a cantare “noi due nel mondo e nell’anima, la verità siamo noi” Aveva gusti un po’ arcaici.

Io ridevo di gusto e gli dicevo «Ma dai, ma che canzone mi fai sentire?» Niente! Lui continuava, convinto.

Mi aveva raccontato un aneddoto. Aveva letto tutte le opere, integrali, dei grandi classici e da ragazzo, la sedia della sua scrivania si era rotta perché ci era stato troppe ore seduto, a studiare.

Era unico. Un valore umano inestimabile.

«Che occhi gonfi!», Esclama, all’improvviso, Martina, mentre si guarda allo specchietto, tirato fuori dalla borsa. In un attimo, mi fa tornare alla realtà.

«E’ lo scotto che mi tocca pagare, sono sacrifici!» Aggiunge e abbozza un sorriso, al ricordo della sua scorsa notte di passione. «Da quando ho lasciato Marco, le mie occhiaie ringraziano, ma la mia soddisfazione, anche».

La guardo e sgrano gli occhi.

Lei scoppia a ridere. Si è rincoglionita, penso. Deve essere vittima di disturbo post traumatico da stress! Per fortuna che è una psicoterapeuta!

«Dai, sto scherzando, Scusami, volevo un po’ sdrammatizzare», ribatte Martina e torna seria. «Continua, che stavi dicendo?».

«L’ultima volta, mi ha detto una cosa, che mi ha lasciata sconvolta, questo non te l’ho mai raccontato» proseguo, presa dal bisogno incessante di tirare fuori la rabbia.

Parlo concitata, gesticolo con le mani, sono un fiume in piena.

«Mi ha urlato piangendo: -Fatti la tua vita! Ho un mostro dentro che ogni tanto torna. Non è colpa mia. Sono cresciuto così e i miei demoni stanno decidendo di farmi fuori. Sono nato nel degrado. Mio padre, quando ero piccolo, mi portava con lui, per aiutarlo a consegnare le dosi, cosi dava meno nell’occhio. Si bucava davanti a me. Cosa vuoi aspettarti, da un uomo con il mio passato? -».

Martina tira fuori un sospiro, forse stanca di ripetermi ogni volta le stesse cose. «Ne abbiamo parlato mille volte, hai da tempo consapevolezza e strumenti per salvarti. Puoi farlo solo tu, se lo vuoi. Ma che ami di lui, Chiara?»

«Leo è una persona brillante. Nonostante i suoi lati oscuri. Ha costruito dal nulla un’impresa di tutto rispetto e ha guadagnato tanti soldi. Non mi ha mai fatto mancare nulla. Nonostante non ne avessi bisogno ha provveduto sempre a tutto. Un uomo generoso, un lavoratore. Si farebbe ammazzare per la sua azienda. Ogni volta che ci sono da fare straordinari, i suoi operai non battono ciglio per dargli una mano. Forse non è abbastanza, ma amo il suo cuore grande».

Abbasso gli occhi per quello che ho appena detto. Mi rendo conto che non va bene. Devo lasciarlo. Lo devo fare.

Proseguiamo dopo il caffè, la nostra passeggiata. Ad un certo punto, mi squilla il telefono. «Pronto? Leo, che cazzo di fine hai fatto?» Il silenzio. Dopo meno di un minuto, non aggiungo altro, chiudo la conversazione, mi volto verso Martina e dico «Devo tornare a casa».

Non ce la faccio.

Neanche questa volta.